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Auschwitz-Birkenau

Viaggio nella memoria

Anche quest’anno, il secondo consecutivo, noi insegnanti di religione abbiamo organizzato il viaggio al campo di sterminio Auschwitz-Birkenau. La motivazione prossima che ha fatto nascere in noi il desiderio di proporre un viaggio del genere è stato il settantesimo anniversario della liberazione dei sopravvissuti nel gennaio del 1945, che ci ha dato l’occasione – con la fatica del caso (non solo fisica) – di provare a metabolizzare quelle atrocità che in un modo o nell’altro abbiamo letto descritte nei libri di storia. Sarebbe bello leggere le testimonianze dei nostri ragazzi, ma in attesa di quelle, offro la mia. 

È stato un viaggio particolare, un viaggio nella memoria, in luoghi che trasudano ancora crudeltà da ogni angolo, capaci di spaventare anche da deserti e in cui storia, testimonianze e realtà si incrociano nella mente di chi li visita. Sensazioni ed emozioni fortissime, tanto chiare e indimenticabili per chi le ha vissute in prima persona quanto complicate da trasformare in parole: impossibile trovare un senso, una ragione logica ad una delle più grandi tragedie del Novecento.

Auschwitz è davvero uno strano museo; ciò che abbiamo visto in quello spazio, anche i pelapatate, le forbici, le pentole, le posate, i pettini, le valige stesse in cui i nazisti ordinavano agli ebrei di accumulare fino a 50 chili di bagagli alla partenza verso i lager non sono oggetti come in qualsiasi altro museo. Sono storie, sono persone. Ti scontri con la storia, con un luogo che è esso stesso memoria.

I nostri studenti, che hanno accolto la proposta del viaggio (in due anni più di 200 ragazzi), si sono dimostratati di fatto giovani sensibili tanto preparati quanto spontanei. L’anno scorso, primo “esperimento” del viaggio nella memoria, abbiamo organizzato una visita di circa quattro ore; quest’anno ne abbiamo proposta una che ci ha coinvolto per tutta una giornata. Davvero impegnativa dal punto di vista psicologico, ma… ne è valsa la pena. Siamo stati accompagnati da guide assai preparate e molto coinvolgenti: grandi pedagoghi!

Gli studenti hanno potuto visitare molte altre cose: dal Crematorio, con la camera a gas e i forni, al Muro della Morte, dove erano fucilati i prigionieri davanti a una barriera creata ad arte per evitare il rimbalzo delle pallottole e dunque attutire il rumore degli spari.

La visita al lager comincia con la lettura di una frase, apposta sopra il cancello e i fili spinati che danno l’ingresso al campo di sterminio: “Arbeit Macht Frei”. Il lavoro rende liberi, ma nessuno riacquistò la libertà, i prigionieri diventavano liberi solo dopo la morte! Mi è rimasta impressa la storia raccontata da chi materialmente ha scritto questa frase. Il fabbro Jan Liwacz fu deportato ad Auschwitz il 20/06/1940, era il prigioniero numero 1010, oppositore politico polacco non ebreo, ed a lui fu dato l’incarico di costruire la scritta all’ingresso del Campo; ma, per una sommessa rivolta contro i nazisti, saldò la lettera B di ARBEIT al contrario, lettera che ancora oggi è visibile proprio sulla scritta all’entrata del Campo di Auschwitz I.

Fino alla fine del 1941 Auschwitz svolgerà la funzione di Campo di concentramento, dove la maggioranza dei deportati erano polacchi ed il motivo dell’internamento quello politico; dal 1942, in base agli accordi stipulati il 20 Gennaio 1942 durante la Conferenza di Wannsee, circa la “soluzione finale della questione ebraica”,  svolgerà una seconda funzione, diventando il più  grande centro di sterminio degli ebrei provenienti dai vari paesi europei.

Auschwitz è da considerarsi un enorme complesso di campi che comprendeva: dal 1940 il Campo di Auschwitz I (Campo base), dal 1942, a circa tre chilometri dal Campo base, il Campo di Auschwitz II – Birkenau, a circa 6 chilometri il Campo di Auschwitz III – Monowitz ( Campo dove fu internato anche Primo Levi) oltre a circa 45 sotto-campi e più di 40 chilometri quadrati di area di competenza del Campo; per ottenere questo grande territorio furono mandati via o internati tutti i polacchi che vi abitavano.

Difficile stabilire un numero preciso di persone deportate e vittime del Campo in quanto i nazisti, prima di abbandonarlo, distrussero quasi tutta la  documentazione. In base agli studi storici (che proseguono tuttora) si stima che circa 1.300.000 persone furono deportate e che circa 1.100.000 vi   furono uccise. La morte ad Auschwitz aveva svariate forme: la fucilazione, l’impiccagione, l’inedia, il freddo, le malattie, le epidemie, le iniezioni letali,  ma la maggior  parte dei prigionieri vennero uccisi nelle camere a gas.

La maggioranza delle vittime è rappresentata dagli ebrei, circa 1.100.000 deportati e circa un milione uccisi; inoltre si contano circa 150.000 polacchi deportati e la metà uccisi nel Campo; quasi 23.000 i Sinti ed i Rom, tutti uccisi nel Campo e circa 25.000 vittime di altre nazionalità.

Dall’Italia furono deportati circa 7.500 ebrei, di questi torneranno in Italia, alla fine della guerra, circa 700 persone. Il primo trasporto dall’Italia arrivò il 23 Ottobre 1943, erano 1.022 italiani di cultura e religione ebraica, arrestati durante la retata del 16 Ottobre 1943 a Roma. All’arrivo, dopo la selezione, 149 uomini e 47 donne furono registrati nel campo, mentre le altre 839 furono immediatamente uccise nelle camere a gas. Dei 1022 ebrei italiani che giunsero con questo trasporto, a liberazione avvenuta, ritorneranno in Italia solo 16 persone.

Nel mese di Novembre del 1944 Himmler, in considerazione dell’avanzata delle truppe sovietiche, ordinò la cessazione delle esecuzioni e la distruzione delle camere a gas e dei crematori cercando così di distruggere le prove del genocidio in atto; ad Auschwitz-Birkenau, però, furono demolite solo le camere a gas ed i crematori di Birkenau mentre la camera a gas di Auschwitz I fu usata come rifugio anti-bomba. Quando il 27 Gennaio del 1945 il primo reparto dell’Armata Rossa entrò nel Campo trovò circa 7000 prigionieri vivi ma quasi tutti infermi. Furono inoltre rinvenuti diverse migliaia di abiti abbandonati, appartenuti ai prigionieri, e diverse tonnellate di capelli, già imballati e pronti per essere portati via. Le vittime di Auschwitz possono essere suddivise in due principali gruppi: circa 900.000 prigionieri ebrei che non furono registrati all’arrivo al campo e che vennero quasi tutti uccisi nelle camere a gas poco dopo il loro arrivo; da un punto di vista formale mai stati prigionieri ad Auschwitz. Circa 400.000 prigionieri registrati e contraddistinti da numeri e simboli: triangoli, stelle (per gli ebrei) ed altri tipi di simboli indicanti la ragione della  prigionia e la loro categoria.

Gli ebrei sui treni venivano chiamati dai tedeschi ‘morti in vacanza’. Una volta saliti sui convogli non erano già più persone e come tali venivano trattati nei campi: non ci si può rendere conto del disprezzo, di come si sia arrivati a tanto e di come degli uomini con un briciolo di senno abbiano potuto agire in quei modi brutali.

Davanti alla fotografia, scattata dopo la guerra a un sopravvissuto nato nel campo di Auschwitz, in cui si vede il tatuaggio del lager non sull’avambraccio sinistro ma su una gamba, molti di loro hanno posto la domanda del perché. I ragazzi sono attenti anche ai particolari. La risposta è perché i bambini erano tatuati sulla coscia. Furono infatti  44 i bambini sopravvissuti al campo di concentramento e sterminio che erano nati, e dunque tatuati, ad Auschwitz.

Chiudo con una frase di Primo Levi: “TUTTI COLORO CHE DIMENTICANO IL LORO PASSATO, SONO CONDANNATI A RIVIVERLO”. Abbiamo voluto proporre a noi stessi e a chi frequenta la nostra scuola che ricordare la storia è importante per plasmare un futuro migliore.

San Marino, 28 ottobre 2016

Prof. Gabriele Raschi


 
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